sabato 28 febbraio 2015

Non ci saranno elegie, né sonetti sulla separazione, non ci dividerà lo schermo dei versi

Quasi con invidia leggo le opere dei miei contemporanei
su divorzi, addii, il dolore delle separazioni;
sofferenza, nuovi inizi, piccole morti;
lettere lette e bruciate, bruciare e leggere, fuoco e cultura,
ira e disperazione – magnifica materia per una poesia riuscita;
un duro giudizio, a volte una risata sarcastica di superiorità morale,
e insieme definitivo trionfo della continuità individuale.

E noi? Non ci saranno elegie, né sonetti sulla separazione,
non ci dividerà lo schermo dei versi,
non si porrà fra noi una metafora riuscita,
l’unica separazione che ora ci minaccia è il sonno,
il profondo antro del sonno la cui soglia varchiamo separati,
- e devo sempre ricordare che la tua mano,
stretta nella mia, è fatta di sogni.

Adam Zagajewski
Dalla vita degli oggetti 
a cura di Krystyna Jaworska
Adelphi 2012

venerdì 27 febbraio 2015

Gli alberi sostano in una pace inclinata

Certi alberi vicini alle case 
sostano in una pace inclinata 
come indicando come chiamando 
noi, gli inquieti, i distratti 
abitatori del mondo. Certi alberi 
stanno pazientemente. Vicini 
alle camere nostre dove gridiamo 
a volte di uno stare insieme 
che ha dentro la tempesta 
noi che devastiamo facce care 
per una legge di pianto.

Mariangela Gualtieri
Bestia di gioia
Einaudi 2010

giovedì 26 febbraio 2015

Ho un cuore eremita. Sono impastata di silenzio e di vento

Gli altri sono troppi, per me.
Ho un cuore eremita. Sono
impastata di silenzio e di vento.
Sono antica.
Mi pento ogni volta che vado
lontano dal mio stare lento
nelle velocità della sera, nelle auto schizzate
di pianto. Col loro buio abitacolo.
E se sfreccio a volte
sulla modesta moto, è per cantare
a gola stesa l’ultimo del paradiso
fare il mio guizzo pericoloso
con tutto quel vento nel petto
seminare parole beate
nel panorama nervoso.

Mariangela Gualtieri
Senza polvere senza peso 
Einaudi 2006

mercoledì 25 febbraio 2015

Dove gli angeli stanno capovolti

Separato

Stavo facendo qualcosa
non ricordo che cosa
ero in un posto
non ricordo dove
aspettavo qualcuno
ma non ricordo chi
era prima o era dopo
non ricordo quando
e di colpo e pian piano
sono stato rimosso, sono stato portato
in questo luogo di capovolgimento
e sono stato separato
a la posto di ogni parte
c’era il nome della paura
e al posto di un grande memoriale
c’era il nome del dolore
se conoscete una preghiera
per uno che è stato dislocato in questo modo
ditela per favore o cantatela
e se in mezzo alle parole
c’è uno spazio vuoto, o tra lettere
un orto del ritorno
vi prego collocate lì saldamente il mio nome
con una voce o una mano
che solo voi comandate
voi giusti
che avete cura di queste cose
Ma fate presto
perché tutte le parti di me
che per poco si sono radunate intorno a questa supplica
sono di nuovo disperse
e disseminate sull’Alto Lato
dove gli angeli stanno capovolti
e tutto è coperto di polvere
e tutti bruciano di vergogna
e a nessuno è permesso di gridare

Leonard Cohen
Il libro del desiderio
traduzione di L. Brambilla e U. Fiori
Mondadori 2008

Separated

I was doing something
I don’t remember what
I was standing in a place
I don’t remember where
I was waiting for someone
but I don’t remember who
It was before or it was after
I don’t remember when
And suddenly or gradually
I was removed, I was taken
to this place of reversal
and I was separated
and in the place of every part
there was the name of fear
and for a vast memorial
there was the name of grief
If you know the prayer
for one who has been so dislocated
please say it or sing it
and if there is among the words
an empty space, or among the letters
an orchard of return
please set my name firmly there
with a voice or hand
which only you command
you righteous ones
who are concerned with such matters
But hurry please
for all the parts of me
that gathered briefly around this plea
are dispersed again
and scattered on the Other Side
where the angels stand upside down
and everything is covered with dust
and everyone burns with shame

and no one is allowed to cry out

The book of longing

martedì 24 febbraio 2015

I luoghi in cui sei stato hanno restituito la tua ombra

Elegia per mio padre
(Robert Strand 1908 -1968)



4 La tua ombra


Hai la tua ombra. 
I luoghi in cui sei stato l’hanno restituita.
I corridoi e i prati spogli dell’orfanotrofio l’hanno restituita.
La Newsboys Home l’ha restituita.
Le strade di New York l’hanno restituita e anche le strade di 
Montreal.
Le camere di Belém dove le lucertole divoravano le zanzare l’hanno 
restituita.
Le strade scure di Manaus e quelle afose di Rio l'hanno 
restituita.
Città del Messico dove te ne volevi andare l’ha restituita.
E Halifax dove il porto si lavava le mani di te l’ha restituita.
Hai la tua ombra.
Quando viaggiavi la scia bianca del tuo incedere affondava
l’ombra, ma quando arrivavi la trovavi ad attenderti.
Avevi la tua ombra.
Le soglie che varcavi ti sottraevano l’ombra e quando uscivi te
la restituivano. Avevi la tua ombra.
Anche quando te la dimenticavi, la ritrovavi; l’ombra era stata
con te.
Una volta in campagna l’ombra di un albero coprì la tua ombra
e tu non venisti riconosciuto.
Una volta in campagna pensasti che la tua ombra fosse proiettata 
da un altro. L’ombra non disse nulla.
I tuoi abiti portavano dietro la tua ombra; quando li toglievi, 
lei si diffondeva come il buio del tuo passato.
E le tue parole che volavano come foglie in un’aria persa, in 
un luogo che nessuno conosce, ti hanno restituito la tua ombra.
Gli amici ti hanno restituito la tua ombra.
I nemici ti hanno restituito la tua ombra. Hanno detto che era
pesante e avrebbe coperto la tua tomba.
Quando moristi la tua ombra dormiva sulla bocca del forno e 
mangiò come pane i ceneri.
Esultava tra le rovine.
Vigilava mentre gli altri dormivano.
Risplendeva come cristallo tra le tombe.
Componeva se stessa come l’aria.
Voleva essere come sull’acqua.
Voleva non essere nulla, ma non era possibile.
Venne a casa mia.
Mi sedette sulle spalle.
La tua ombra è tua. Glielo dissi. Le dissi che era tua. 
L’ho portata con me troppo tempo. La restituisco.



Mark Strand
L'inizio di una sedia
a cura di Damiano Abeni
Donzelli editore 1999


4 Your shadow
You have your shadow.
The places where you were have given it back.
The hallways and bare lawns of the orphanage have given it back.
The Newsboys Home has given it back.
The streets of New York have given it back and so have the streets of
Montreal.
The rooms in Bel?m where lizards would snap at mosquitos have
given it back.
The dark streets of Manaus and the damp streets of Rio have given it
back.
Mexico City where you wanted to leave it has given it back.
And Halifax where the harbor would wash its hands of you has given
it back.
You have your shadow.
When you traveled the white wake of your going sent your shadow
below, but when you arrived it was there to greet you. You had
your shadow.
The doorways you entered lifted your shadow from you and when you
went out, gave it back. You had your shadow.
Even when you forgot your shadow, you found it again; it had been
with you.
Once in the country the shade of a tree covered your shadow and you
were not known.
Once in the country you thought your shadow had been cast by somebody
else. Your shadow said nothing.
Your clothes carried your shadow inside; when you took them off, it
spread like the dark of your past.
And your words that float like leaves in an air that is lost, in a place
no one knows, gave you back your shadow.
Your friends gave you back your shadow.
Your enemies gave you back your shadow. They said it was heavy and
would cover your grave.
When you died your shadow slept at the mouth of the furnace and ate
ashes for bread.
It rejoiced among ruins.
It watched while others slept.
It shone like crystal among the tombs.
It composed itself like air.
It wanted to be like snow on water.
It wanted to be nothing, but that was not possible.
It came to my house.
It sat on my shoulders.
Your shadow is yours. I told it so. I said it was yours.
I have carried it with me too long. I give it back.

lunedì 23 febbraio 2015

è quel che ho sempre fatto fra tramonto e l’alba

Elegia per mio padre
(Robert Strand 1908 -1968)


2 Risposte
Perché viaggiavi?
Perché la casa era fredda.
Perché viaggiavi?
Perché è quel che ho sempre fatto fra tramonto e l’alba.
Cosa indossavi?
Indossavo un abito blu, camicia bianca, cravatta e calze gialle.
Cosa indossavi?
Non indossavo nulla. Mi scaldava la sciarpa di pena.
Con chi dormivi?

Dormivo ogni notte con una donna diversa.
Con chi dormivi?
Dormivo solo. Ho sempre dormito solo.
Perché mi mentivi?
Ho sempre pensato di dire la verità.
Perché mi mentivi?
Perché la verità mente più di ogni altra cosa e io amo la verità.
Perché te ne vai?
Perché nulla ha senso per me ormai.
Perché te ne vai?
Non lo so. Non l’ho mai saputo.
Quanto dovrò aspettarti?
Non aspettarmi. Sono stanco e mi voglio sdraiare.
Sei stanco e ti vuoi sdraiare?
Sì, sono stanco e mi voglio sdraiare.



Mark Strand
L'inizio di una sedia
a cura di Damiano Abeni
Donzelli editore 1999


2 Answers
Why did you travel?
Because the house was cold.
Why did you travel?
Because it is what I have always done between sunset and sunrise.
What did you wear?
I wore a blue suit, a white shirt, yellow tie, and yellow socks.
What did you wear?
I wore nothing. A scarf of pain kept me warm.
Who did you sleep with?
I slept with a different woman each night.
Who did you sleep with?
I slept alone. I have always slept alone.
Why did you lie to me?
I always thought I told the truth.
Why did you lie to me?
Because the truth lies like nothing else and I love the truth.
Why are you going?
Because nothing means much to me anymore.
Why are you going?
I donÕt know. I have never known.
How long shall I wait for you?
Do not wait for me. I am tired and I want to lie down.
Are you tired and do you want to lie down?
Yes, I am tired and I want to lie down.

domenica 22 febbraio 2015

Non il giorno più bello. Non la quiete. Non l’ondeggiare dell’oceano.

Elegia per mio padre
(Robert Strand 1908 -1968)

3 Il tuo morire
Niente riusciva a fermarti.
Non il giorno più bello. Non la quiete. Non l’ondeggiare 
dell’oceano. 
Continuavi a morire.
Non le piante 
sotto cui camminavi, non le piante che ti davano ombra.
Non il dottore che ti aveva avvertito, il dottorino biancocrinito che già 
una volta t’aveva salvato.
Continuavi a morire.
Niente riusciva a fermarti. Non tuo figlio. Non tua figlia
che ti imboccava e ti aveva reso di nuovo bambino.
Non tuo figlio che credeva che saresti vissuto per sempre.
Non il vento che ti strattonava il bavero.
Non l’immobilità che si offriva al tuo movimento.
Non le scarpe che ti appesantivano.
Non gli occhi che si rifiutavano di guardare avanti.
Niente riusciva a fermarti.
Te ne stavi in camera e guardavi la città. 
E continuavi morire.
Andavi al lavoro e lasciavi che il freddo ti penetrasse i vestiti.
Lasciavi trasudare sangue nei calzini.
Il volto ti si faceva bianco.
La voce ti spezzava in due.
Ti appoggiavi al bastone.
Ma niente ti riusciva a fermarti.
Non gli amici che ti consigliavano.
Non tuo figlio. Non tua figlia che ti guardava rimpicciolire.
Non la stanchezza che viveva nei tuoi sospiri.
Non i polmoni che si riempivano d’acqua.
Non le maniche che sopportavano il dolore delle braccia.
Niente riusciva a fermarti.
Continuavi a morire.
Quando giocavi con i bambini continuavi a morire.
Quando ti accomodavi a pranzo,
quando ti svegliavi di notte, bagnato di lacrime, il corpo scosso 
da singhiozzi,
continuavi a morire.
Niente riusciva a fermarti. 
Non il passato.
Non il futuro con il suo bel tempo.
Non la vista della finestra, la vista del cimitero.
Non la città. Non la città orrenda dagli edifici di legno.
Non la sconfitta. Non il successo.
Non facevi altro che continuare a morire.
Avvicinavi l’orologio all’orecchio.
Ti sentivi venir meno.
Stavi a letto.
Ti mettevi le braccia conserte e sognavi il mondo senza di te, 
lo spazio sotto gli alberi, 
lo spazio in camera tua,
gli spazi che sarebbero fatti vuoti di te,
e continuavi a morire.
Niente riusciva a fermarti.
Non il tuo respiro. Non la tua vita.
Non la vita che volevi.
Non la vita che avevi.
Niente riusciva a fermarti.



Mark Strand
L'inizio di una sedia
a cura di Damiano Abeni
Donzelli editore 1999

3 Your dying

Nothing could stop you.
Not the best day. Not the quiet. Not the ocean rocking.
You went on with your dying.
Not the trees
Under which you walked, not the trees that shaded you.
Not the doctor
Who warned you, the white-haired young doctor who saved you once.
You went on with your dying.
Nothing could stop you. Not your son. Not your daughter
Who fed you and made you into a child again.
Not your son who thought you would live forever.
Not the wind that shook your lapels.
Not the stillness that offered itself to your motion.
Not your shoes that grew heavier.
Not your eyes that refused to look ahead.
Nothing could stop you.
You sat in your room and stared at the city
And went on with your dying.
You went to work and let the cold enter your clothes.
You let blood seep into your socks.
Your face turned white.
Your voice cracked in two.
You leaned on your cane.
But nothing could stop you.
Not your friends who gave you advice.
Not your son. Not your daughter who watched you grow small.
Not fatigue that lived in your sighs.
Not your lungs that would fill with water.
Not your sleeves that carried the pain of your arms.
Nothing could stop you.
You went on with your dying.
When you played with children you went on with your dying.
When you sat down to eat,
When you woke up at night, wet with tears, your body sobbing,
You went on with your dying.
Nothing could stop you.
Not the past.
Not the future with its good weather.
Not the view from your window, the view of the graveyard.
Not the city. Not the terrible city with its wooden buildings.
Not defeat. Not success.
You did nothing but go on with your dying.
You put your watch to your ear.
You felt yourself slipping.
You lay on the bed.
You folded your arms over your chest and you dreamed of the world
without you,
Of the space under the trees,
Of the space in your room,
Of the spaces that would now be empty of you,
And you went on with your dying.
Nothing could stop you.
Not your breathing. Not your life.
Not the life you wanted.
Not the life you had.
Nothing could stop you.

sabato 21 febbraio 2015

Gli anni, le ore, che non t’avrebbero trovato

Elegia per mio padre
(Robert Strand 1908 -1968)

1 Il corpo vuoto
Le mani erano tue, le braccia erano tue, 
ma tu non c’eri.
Gli occhi erano tuoi, ma chiusi, e non si aprivano,
Il sole lontano c’era.
La luna sospesa sulla spalla bianca del colle c’era.
Il vento sul Bedford Basin c’era.
La luce verde tenue dell’inverno c’era.
La tua bocca c’era, 
ma tu non c’eri.
Quando qualcuno parlò, non vi fu risposta.
Nubi calarono
e seppellirono gli edifici sull’acqua,
e l’acqua fu muta.
I gabbiani guardavano.
Gli anni, le ore, che non t’avrebbero trovato
ruotavano ai polsi degli altri.
Non c’era il dolore. Se n’era andato.
Non c’erano i segreti. Non c’era nulla da dire.
L’ombra spargeva le sue ceneri.
Il corpo era tuo, ma tu non c’eri.
L’aria rabbrividiva sulla tua pelle.
Il buio si chinava nei suoi occhi.
Ma tu non c’eri.



Mark Strand
L'inizio di una sedia
a cura di Damiano Abeni
Donzelli editore 1999



Elegy for my father

1 The empty body

The hands were yours, the arms were yours,
But you were not there.
The eyes were yours, but they were closed and would not open.
The distant sun was there.
The moon poised on the hill's white shoulder was there.
The wind on Bedford Basin was there.
The pale green light of winter was there.
Your mouth was there,
But you were not there.
When somebody spoke, there was no answer.
Clouds came down
And buried the buildings along the water,
And the water was silent.
The gulls stared.
The years, the hours, that would not find you
Turned in the wrists of others.
There was no pain. It had gone.
There were no secrets. There was nothing to say.
The shade scattered its ashes.
The body was yours, but you were not there.
The air shivered against its skin.
The dark leaned into its eyes.
But you were not there.

venerdì 20 febbraio 2015

e una scala per scendere, tacere, e sedermi accanto a te come allora

I trecento scalini



A Susy e Margara


Tutto era calmo nella casa spenta.
Fino al giorno dopo, fino a Dio sa quando
il silenzio regnava come un idolo antico.
Non funzionavano le leggi del traffico,
quelle imprescindibili ordinanze
che bisogna rispettare per transitare nel corridoio.
È come se la notte proponesse una tregua,
come se allo spegnersi della luce, si spegnesse il pericolo.
Ascolto. Niente. Tutti tacciono unanimi.
Fissare l’oscurità è professare da morto:
gli occhi vanno dal nero che ci abita
al nero che ci avvolge.
Siamo gli spenti, gli assenti,
quelli che raccolgono tempo nei polsi;
siamo i revisori dei conti del silenzio
e quel silenzio è come un tunnel in cui avanza solo il tempo.
Non vedere, non essendo ciechi, è sprofondare nel tempo.

L’armadio, con la sua porta socchiusa, dà sulle coste della Francia.
Sento le navi che escono o entrano nel porto di Le Havre.
Vedo tre bimbe contente, a Barcellona,
perché andavano in viaggio:
basta con i bombardamenti,
non avrebbero più dovuto nascondersi sotto quella scala
che portava alle stanze di sopra
mentre sentivano, spaventate, il sibilo acuto delle bombe.
Ce ne andavamo, ce ne andavamo in Francia.
E così, arrivammo a Bañolas:
noi contentissime di vedere il lago,
papà, mamma e la nonna
trascinandosi il cuore, spingendolo verso la frontiera.
Per me, Parigi, fu a lungo un gatto.
C’era un gatto nella povera pensione in cui vivevamo,
un gatto che dormiva accanto ad una stufa.
Non vidi mai Parigi: vidi solo quel gatto.

E andammo a Le Havre per prendere una nave.
Noi con due pupazzi e una scimmietta,
papà con la sua cassa di quadri e un sogno braccato,
un sogno trasformato in incubo,
un sogno di massa
trascinato come unico bagaglio
da una immensa processione di persone sole.
Ma quella nave non giunse al suo porto:
aspettavamo, mentre mamma, per rallegrarci,
qualche giorno cantava El niño judío: «De España vengo, soy española».

Non arrivò la nave. Arrivarono gli aerei tedeschi.
Dovemmo camminare a quattro zampe nelle stanze dell’albergo,
che stava di fronte al porto.
Quell’albergo aveva un nome,
si chiamava «La Rotonde de la Gare».
Papà dipingeva, e come Modigliani,
usciva per offrire i suoi quadri alla gente. Neanche a lui li compravano.
Noi imparammo il francese in due settimane.

L’orologio de La Gare ha suonato il quarto,
papà mi dice di sollevare un po’ di più la testa,
due o tre pennellate e termina il ritratto.

Mio padre, non so bene perché, mi ritrasse da giapponesina.
Restai per sempre con il mio ventaglio,
con gli occhi leggermente obliqui e sorpresi,
in una età piuttosto indefinita
e un diadema di viole sui capelli.

Papà, andiamo al porto, andiamo al porto adesso che c’è tempo
e poi andiamocene di corsa a vedere il Bois des Hallates,
andiamo, che si è perso il tuo quadro e potrò vederlo solo con te e per sempre.

Papà, perdemmo tante cose
oltre all’infanzia e ai trecento scalini che dipingesti
non seppi mai se per dirci che bisognava salirli o scenderli.
E ora penso, dalla tua mano che mi aiutava a percorrerli,
che forse mi dicesti allora
che bisognava salirli e scenderli
e per questo li avevi dipinti
e per questo passasti giorni e giorni
a dipingere una scala interminabile,
una bella scala circondata da alberi e alberi,
piena di luce e di amore,
una scala per me,
una scala affinché potessi uscire,
vivere,
e una scala per scendere,
tacere,
e sedermi accanto a te come allora.

Mi sono alzata per chiudere la porta dell’armadio.
La mia casa è tranquilla,
nell’aria ronza tenue la lontana sirena di una nave.
Coloro che più amo dormono:
mia figlia, rimboccata nei suoi nove anni
e Felix indifeso davanti ai suoi trentotto.
Alla fine si spegne l’eco delle navi.
Torno a letto.
— Buona notte papà. A domani se Dio vuole. 

Buon riposo.

Francisca Aguirre
traduzione di Raffaella Marzano

Los trescientos escalones


A Susy y Margara


Estaba todo quieto en la casa apagada.
Hasta el día siguiente, hasta sabe Dios cuándo
el silencio reinaba como un ídolo antiguo.
No funcionaban las leyes de tráfico,
esas imprescindibles ordenanzas
que hay que acatar para transitar el pasillo.
Es como si la noche propusiera una tregua,
como si al apagar la luz se apagara el peligro.
Escucho. Nada. Todos callan unánimes.
Mirar la oscuridad es profesar de muerto:
los ojos van de lo negro que nos habita
a lo negro que nos envuelve.
Somos los apagados, los ausentes,
los que gavillan tiempo en sus muñecas;
somos los auditores del silencio
y ese silencio es como un túnel por el que sólo avanza el tiempo.
No ver, no estando ciegos, es hundirse en el tiempo.
El armario, con su puerta entreabierta da a las costas de Francia.
Oigo los barcos que salen o entran por el puerto del Havre.
Veo tres niñas muy contentas, en Barcelona,
porque se iban de viaje:
se acababan los bombardeos,
ya no tendrían que esconderse debajo de aquella escalerita
que conducía a las habitaciones superiores
mientras oían, espantadas, el agudo silbido de las bombas.
Nos íbamos, nos íbamos a Francia.
Y así, llegamos a Bañolas:
nosotras contentísimas de ver el lago,
papá, mamá y la abuela
arrastrando su corazón, empujándolo a la frontera.
París fue para mí, durante mucho tiempo, un gato.
Había un gato en aquella pobre pensión en que vivimos,
un gato que dormía al lado de una estufa.
Yo nunca vi París: tan sólo vi ese gato.
Y nos fuimos al Havre para tomar un barco.
Nosotras con dos muñecos y un monito,
papá con su caja de pinturas y un sueño acorralado,
un sueño convertido en pesadilla,
un sueño multitudinario
arrastrado como único equipaje
por una interminable procesión de solos.
Pero aquel barco no llegó a su puerto:
esperamos mientras mamá, para alumbrarnos,
cantaba algunos días El niño judío: «De España vengo, soy española».
No llegó el barco. Llegaron aviones alemanes.
Hubo que caminar a gatas por las habitaciones del hotel,
que estaba frente al puerto.
Aquel hotel tenía un nombre,
se llamaba «La Rotonde de La Gare».
Papá pintaba. Y como Modigliani,
iba a ofrecer sus cuadros a las gentes. Tampoco a él le compraban.
Nosotras aprendimos francés en dos semanas.
El reloj de La Gare ha dado un cuarto,
papá me dice que levante la cara un poco más,
dos o tres pinceladas y termina el retrato.
Mi padre, no sé bien por qué, me pintó de japonesa.
Para siempre quedé con mi abanico,
con los ojos ligeramente oblicuos y asombrados,
en una edad más bien indefinida
y con una diadema de pensamientos sobre el pelo.
Papá, vamos al puerto, vamos al puerto ahora que hay tiempo
y luego vámonos corriendo a ver el Bois des Hallates,
vamos, que se perdió tu cuadro y ya sólo podré verlo contigo y para siempre.
Papá, perdimos tantas cosas
además de la infancia y los trescientos escalones que tú pintaste
nunca he sabido si para decirnos que había que subirlos o bajarlos.
Y ahora pienso, desde tu mano que me ayudaba a recorrerlos,
que tal vez me dijiste entonces
que había que subirlos y bajarlos
y para eso los pintaste
y para eso pasaste días enteros
pintando una escalera interminable,
una hermosa escalera rodeada de árboles y árboles,
llena de luz y amor,
una escalera para mí,
una escalera para que pudiera subir,
vivir,
y una escalera para descender,
callar,
y sentarme a tu lado como entonces.
Me he levantado para cerrar la puerta del armario.
Está mi casa sosegada,
apenas en el aire zumba tenue la remota sirena de un barco.
Los que más amo duermen:
mi hija, arropada en sus nueve años
y Félix indefenso ante sus treinta y ocho.
Al fin se extingue el eco de los barcos.
Vuelvo a la cama.
— Buenas noches, papá. Hasta mañana si Dios quiere. Que descanses.


giovedì 19 febbraio 2015

nella bufera di rose la notte è illuminata di spine

ovunque ci volgiamo
nella bufera di rose
la notte è illuminata
di spine
e il rumore delle foglie
che prima era quieto nei cespugli
è rombo di tuono ai nostri piedi.



Ingeborg Bachmann

Messaggio per Camilla Miglio: mi mandi la tua traduzione?

mercoledì 18 febbraio 2015

Fra le tue pietre e le tue nebbie faccio villeggiatura

Milano

Fra le tue pietre e le tue nebbie faccio villeggiatura.
Mi riposo in piazza
Del Duomo.
Invece
di stelle
ogni sera si accendono parole.
Nulla riposa della vita come

la vita.

Umberto Saba
Canzoniere
in Tutte le poesie
Meridiani Mondadori 1996

martedì 17 febbraio 2015

Una metafora per l'inverno

Similitudine

Hai freddo? Sei come 
il fischio dell'uccello solitario sul cespuglio 
                        invernale vestito di neve.



Miklós Radnóti
Scritto verso la morte
traduzione di Marinka Dallos e Gianni Toti
D'Urso Editrice 1964

lunedì 16 febbraio 2015

La visione, il rimando, l'incrocio, il senso vivo della poesia

1.
Il senso vivo dell’arte e della poesia, il significato che non
può che essere vivo, stanno nel rimando, nel cortocircuito,
nel punto d’incrocio, nella visione tanto precisa quanto
imprevista e imprevedibile. Il quotidiano con la sua
modestia è anche l’unica realtà forte capace di sostenere la
rete di simboli che attraversano la mente, l’unica realtà
capace di dare radice a ciò che altrimenti sarebbe vacuo
riferimento senza sostanza. E qui la sostanza è nel continuo
rovesciamento delle parti tra l’elaborazione storico-formale 
l’annotazione, l’appunto, l’istantanea.


Antonella Anedda
Il catalogo della gioia
Donzelli editore 2003

domenica 15 febbraio 2015

Seguire il mare

L'incognita è sul binario di corsa
o è nell'uomo che sulla banchina deserta
aspetta perdutamente il convoglio? -
non sa come e perché questo dubbio la tormenta.
Pensare ad altro?
Improvvisamente non c'è altro.
Annullarsi, seguire per esempio il mare
che esplode e ritorna mare poco più in basso? Non serve,
constata nella sua vana onniscienza
la non più tanto insonnolita star
addossata al suo bagaglio nella sala d'aspetto:
e fissa l'uno e l'altro, il binario e l'uomo
cercando di conoscerlo, l'evento,
dico, che lei sente maturo
se non già oscuramente accaduto, cos'è mai, quale n'è il senso.
E io che pesco non so dove nella sua vita questo momento.


Mario Luzi
Al fuoco della controversia
Garzanti 1978