lunedì 30 novembre 2015

ma tu partivi sempre la sera prima del mio arrivo

A cosa mi è servito correre per tutto il mondo,
trascinare, di città in città, un amore
che pesava più di mille valigie; mostrare
a mille uomini il tuo nome scritto in mille 
alfabeti e un’immagine del tuo volto
che io giudicavo felice? A cosa mi è servito

respingere questi mille uomini, e gli altri mille
che fecero di tutto perché mi fermassi, mille 
volte pettinando le pieghe del mio vestito
stanco di viaggi, o dicendo il tuo nome
così bello in mille lingue che io mai 
avrei compreso? Perché era solo dietro te

che correvo il mondo, era con la tua voce
nelle mie orecchie che io trascinavo il fardello
dell’amore di città in città, il tuo nome
sulle mie labbra di città in città, il tuo
volto nei miei occhi durante tutto il viaggio,

ma tu partivi sempre la sera prima del mio arrivo.

Maria do Rosário Pedreira
traduzione di Mirella Abriani
dalla rivista “Poesia”, Anno XXV, Ottobre 2012, N.275, 
Crocetti Editore

e grazie al blog Poesia in Rete ***

«De que me serviu ir correr mundo »

De que me serviu ir correr mundo,
arrastar, de cidade em cidade, um amor
que pesava mais do que mil malas; mostrar
a mil homens o teu nome escrito em mil
alfabetos e uma estampa do teu rosto
que eu julgava feliz? De que me serviu

recusar esses mil homens, e os outros mil
que fizeram de tudo para eu parar, mil 
vezes me penteando as pregas do vestido
cansado de viagens, ou dizendo o seu nome
tão bonito em mil línguas que eu nunca
entenderia? Porque era apenas atrás de ti

que eu corri o mundo, era com a tua voz
nos meus ouvidos que eu arrastava o fardo
do amor de cidade em cidade, o teu nome
nos meus lábios de cidade em cidade, o teu
rosto nos meus olhos durante toda a viagem,

mas tu partias sempre na véspera de eu chegar.

Maria do Rosário Pedreira

de “Nenbum Nome Depois”, Gótica, Lisboa, 2004

domenica 29 novembre 2015

La felicità secondo Kafka

Un'assolata striscia di felicità.

Franz Kafka
Gli otto quaderni in ottavo
Terzo quaderno
in Confessioni e Immagini
traduzione di Italo Alighiero Chiusano
Mondadori ottobre 1960

sabato 28 novembre 2015

Scrivere è parlare delle brughiera facendo soffiare il vento e ruggire il tuono:Virginia Woolf sulle sorelle Brontë

 Il significato di un libro, che tanto spesso non si trova affatto in ciò che vi accade, in ciò che vi è detto, e consiste piuttosto in un nesso che cose in sé differenti hanno assunto per lo scrittore, è inevitabilmente difficile da afferrare. È specialmente così quando, come nel caso delle Brontë, lo scrittore è poetico e il suo significato inseparabile dal suo linguaggio e di per sé più un modo di sentire, che un’osservazione particolare. Cime tempestose è un libro più difficile da capire di Jane Eyre, perché Emily era più poeta di Charlotte. Scrivendo, Charlotte diceva con eloquenza e splendore e passione «io amo», «io odio», «io soffro». La sua esperienza, anche se più intensa, è allo stesso livello della nostra. Ma non c’è «io» in Cime tempestose. Non ci sono istitutrici. Non ci sono padroni. C’è l’amore, ma non è l’amore tra uomini e donne. Emily si ispirava a una concezione più generale. L’impulso che la spingeva a creare non erano le sue proprie sofferenze e offese. Rivolgeva lo sguardo a un mondo spaccato in due da un gigantesco disordine e sentiva in sé la facoltà di riunirlo in un libro. Tale gigantesca ambizione si fa sentire in tutto il romanzo – una lotta, a metà frustrata, ma di superba convinzione, per dire tramite la bocca dei personaggi qualcosa che non sia soltanto «io amo», «io odio», ma «noi, l’intera razza umana», e «voi, potenze eterne»… la frase rimane incompiuta. Non è strano che sia così; sorprende piuttosto che riesca a farci sentire ciò che aveva in animo di dire. Trabocca dalle parole a metà disarticolate di Catherine Earnshaw, «Se tutto fosse perito e lui solo rimasto, io continuerei a esistere; e se tutto rimanesse e lui fosse annientato, l’universo si trasformerebbe in un possente estraneo, non me ne sentirei parte». E ancora irrompe nella presenza dei morti: «Vedo un riposo che né la terra né l’inferno possono troncare e sento la sicurezza dell’aldilà infinito e privo di ombre – l’eternità in cui sono entrati – dove la vita è illimitata nella sua durata e l’amore nella sua simpatia e la gioia nella sua pienezza». È questa allusione a un potere che soggiace alle apparizioni della natura umana e le solleva alla presenza della grandezza che dà al libro la sua enorme statura tra altri romanzi. Ma a Emily Brontë non bastava scrivere poche liriche, emettere un grido, esprimere un credo. Nelle sue poesie lo fece una volta per tutte, e le sue poesie forse sopravviveranno al romanzo. Ma era un romanziere oltre che un poeta. Doveva accollarsi un compito più laborioso e più ingrato. Doveva confrontarsi col fatto di altre esistenze, venire alle prese col meccanismo delle cose esteriori, costruire in forma riconoscibile case, fattorie e riportare la lingua degli uomini e delle donne che esistevano indipendentemente da lei. Raggiungiamo così quegli apici di emozione non a forza di discorsi ampollosi, di estasi, ma sentendo una ragazza che canta per sé sola vecchie canzoni mentre si dondola tra i rami di un albero; guardando le
greggi di pecore che pascolano nella brughiera; ascoltando il vento soffice che respira nell'erba. Si apre ai nostri occhi la vita della fattoria con tutte le sue assurdità e improbabilità. Ci è offerta ogni occasione di paragonare Cime tempestose con una fattoria vera e Heathcliff con un uomo vero. Siamo anche liberi di chiederci come fanno a esserci verità, introspezione, le più delicate sfumature dell’emozione, in uomini e donne che così poco somigliano a ciò che siamo abituati a vedere? Ma proprio mentre ce lo chiediamo vediamo in Heathcliff il fratello che una sorella geniale ha saputo vedere; è impossibile, viene da dire, e nondimeno nessun ragazzo della letteratura ha un’esistenza più vivida della sua. Lo stesso accade con le due Catherine; non c’è donna che possa sentire o agire come loro, ci diciamo. E tuttavia, sono tra le donne più amate della letteratura inglese. È come se lei sapesse lacerare tutto ciò che sappiamo degli esseri umani, e riempire queste irriconoscibili trasparenze con tali empiti di vita che trascendono la realtà. Il suo è il più raro dei doni. Sapeva liberare la vita dalla sua dipendenza dai fatti; con pochi tocchi indicare lo spirito di una faccia che non aveva più bisogno di un corpo; parlando della brughiera far soffiare il vento e ruggire il tuono.

tratto da «Jane Eyre and Wuthering Heights», The Common Reader: First Series, The Hogarth Press, London 1925

Virginia Woolf
Voltando pagina
Saggi 1904-1941
a cura di Liliana Rampello
Il Saggiatore 2011


venerdì 27 novembre 2015

Il vento è una visione con città di nuvole distrutte

Vento. Essere nel vento.

Della steppa
Il vento corre sulla terra senza incontrare ostacoli
brucia dritto senza barriere di monti.
È a est del corpo che schiaccia le spine dei cespugli.
Ha nomi mongoli, rumori di zoccoli che fendono lo spazio.
Si solleva. Si raccoglie negli altipiani:
Caucaso, Anatolia, e il regno beffardo di Sardon
dove si dice siano tracce dell’Arca e della Croce.
È una visione con città di nuvole distrutte
dove una sola icona splende di bellezza 
incorruttibile eppure spezzata dal calcio dei cavalli.

Antonella Anedda 
Il catalogo della gioia
Donzelli 2003

giovedì 26 novembre 2015

Il vento è la mia bocca spalancata, piena di mare


Vento. Essere nel vento.

Delle isole.
Essere nel maestrale. Soffia sulle Bocche
fino a Bonifacio. È la mia bocca. Spalancata
piena di mare. Forte di sale
più forte di ogni bufera. È
la mia tempesta che spezza le pagine dei libri
che scortica le querce fino ai sugheri
scuote le insegne e ruota tra i traghetti.
Mi spinge mi
vuota il cuore, lo scava.
È una conca di fiato.

Antonella Anedda
Il catalogo della gioia
Donzelli 2003

mercoledì 25 novembre 2015

Cos'è la luce? La luce è un'ombra (secondo Einstein)

Fin da bambino suonavo il violino su di uno strumento di mio padre datato 1691. Qualcuno mi disse che forse Einstein avrebbe avuto interesse nel vedere quello strumento, poiché anche lui suonava il violino. In quei giorni Einstein si trovava in Svizzera e mi condussero da Lui. Forse non mi resi neppure conto in quel momento della gran fortuna che mi venne incontro improvvisa. Alla presenza di Einstein, confesso, mi sentii turbato anche perché la persona che mi aveva accompagnato disse che io facevo con le carte da gioco" delle cose strane" e fui
invitato a mostrare al Maestro qualcosa dei miei esperimenti. Ricordo che cosa pensavo che avvenisse. lo parlai dello "spirito" attribuendo tutto alla sua possibilità. Egli non fece commenti ma mi disse che voleva farmi un dono
col quale avrei risolto più facilmente i problemi della mia vita. "Mi dica, giovanotto, cos'è la luce?" Incominciai allora a ripetere quanto avevo studiato in liceo, parlai della velocità dei fotoni, ecc. ecc. "No, no" I mi corresse, "voglio una definizione della luce". "No, non sono in grado di esprimerla", gli risposi.
Allora Einstein disse: " La luce è un'ombra" . Dissi che non comprendevo.
Eravamo alcune persone sedute intorno ad un tavolo con un lampadario acceso al soffitto. Allora egli tese un braccio verso il centro del tavolo, tenendo la mano allungata. Con l'altra mano picchiò sul dorso di quella tesa e disse: "Questa
mano è materia, proietta quindi un'ombra scura. Ma se la mia mano fosse Dio, proietterebbe luce, poiché Dio è spirito". Poi, vedendo che forse non comprendevo, aggiunse: "Se tutte le cose che ci interessano, volessimo conoscerle meglio per comprenderle, dovremmo saperle esaminare collocandole sotto l'angolazione spirituale giusta. Con le sue carte da gioco, Lei ha parlato di spirito, provi un po' a pensare a quello che Le ho detto".

Un incontro con Albert Einstein raccontato da Gustavo Adolfo Rol 
nel suo libro
"io sono la grondaia"
Diari, lettere, riflessioni
a cura di Catterina Ferrari
Giunti Editore 2000

martedì 24 novembre 2015

Scrivere significa essere capaci di conservare lo sguardo

Tre cose: Vedere se stessi come una cosa estranea, dimenticare ciò che si è visto, conservare lo sguardo.
6 dicembre

Franz Kafka
Gli otto quaderni in ottavo
Terzo quaderno
in Confessioni e Immagini
traduzione di Italo Alighiero Chiusano
Mondadori ottobre 1960

lunedì 23 novembre 2015

era tutta un manoscritto, parole, anima, alberi di betulla, poesie, lettere

Appoggiava la fronte su una mano cacciando le dita tra i capelli e si concentrava all’istante. Diventava cieca e sorda a tutto ciò che non fosse il manoscritto, in cui letteralmente si conficcava con la punta della penna e l’acume del pensiero”. Ogni tanto si accendeva una sigaretta e beveva un sorso di caffè. Parlottava per sentire come suonavano le parole, restava seduta al tavolo, come inchiodata, qualunque cosa accadesse intorno a lei, e ricopiava i manoscritti da mandare in tipografia in stampatello. “Ogni manoscritto è indifeso. E io sono tutta – un manoscritto”, scrive nella seconda raccolta di lettere pubblicata da Adelphi, Deserti luoghi.

Cvetaeva era tutta un manoscritto, parole, anima, alberi di betulla, poesie, lettere, e il resto dell’esistenza, la vita dei giorni, le sfuggiva di mano, la faceva sentire “una miserabile, piccola sartina che non farà mai niente di bello, che sa solamente far guasti e ferirsi e che, lasciando là tutto: forbici, pezze, rocchetti – si mette a cantare. Davanti a una finestra dove piove per sempre”. Così, mentre gli altri stanno in vacanza, si divertono, si riposano dopo un lavoro che forse non amano, o non amano abbastanza, o comunque non amano più della vita stessa, Marina soffre: “La mia vacanza è proprio il mio lavoro. Quando non scrivo sono semplicemente infelice, e nessun mare può darmi sollievo”.


Un bellissimo ritratto di Marina Cvetaeva scritto da Annalena Benini
tratto dal blog minimaemoralia

domenica 22 novembre 2015

L'impossibilità di non scrivere: Marina Cvetaeva e la poesia

La vita di una donna che per prima cosa ogni mattina, mettendo da parte tutte le faccende e le urgenze, a mente fresca, e pancia vuota, scrive. “Si versava una tazzina di caffè bollente e la posava sullo scrittoio, al quale andava ogni giorno della sua vita, come un operaio alla macchina: con lo stesso senso di responsabilità, ineluttabilità, impossibilità di fare altrimenti”.

L’impossibilità di non scrivere ha segnato la vita di Marina Cvetaeva, nella povertà, nell’esilio, nella mancata pubblicazione dei versi, durante la Rivoluzione, durante la morte della sua figlia più piccola, nella sparizione degli amici, degli amori, e nella solitudine più dolorosa. Anche nella giovinezza allegra, quando le serviva molto poco per essere felice: “A Dio io chiedo / una stanza – qualunque – / un buco – da sola! – / un posto – per me! – / quattro pareti per / il silenzio”.

(...)

Marina Cvetaeva, che aveva pubblicato la prima raccolta di poesie a diciott’anni, scriveva come gli altri respirano, per restare viva. “Perché scrivo? Scrivo perché non posso non scrivere. Alla domanda sullo scopo – risposta sulla causa. E non può essercene altra”. Osservare e descrivere, cercare la verità, contemplare, scolpire. Per fare questo aveva un bisogno carnale delle parole degli altri (“trovate parole che mi incantino, credo soltanto agli incantesimi”), si innamorava di tutti, tendeva le braccia, inondava le persone e chiedeva loro di inondarla. Cercava interlocutori alla sua altezza, persone che sapessero ascoltare, cercava un’eco alle sue parole, un’anima gemella vivente, o più di una, aveva bisogno di versi e di scintille, ma le persone si stancavano in fretta della fatica a cui lei costringeva la loro mente e tutti i muscoli dell’anima, e si ritraevano spaventate, stordite.

Un bellissimo ritratto di Marina Cvetaeva scritto da Annalena Benini
tratto dal blog minimaemoralia

sabato 21 novembre 2015

I cieli incombono pesanti e scuri – un relitto naviga da occidente, le nuvole mutano in strane forme

Gli scrittori egocentrici ed egolimitati hanno un potere negato a quelli più ecumenici e di larghe vedute. Le loro impressioni, benché tra mura ristrette, sono densissime e ben marcate. Niente esce dalla loro mente che non sia segnato dalla loro impronta. Imparano poco dagli altri scrittori e ciò che adottano non riescono ad assimilarlo. Sia Hardy che Charlotte Brontë sembra che abbiano fondato il loro stile su un rigido e decoroso giornalismo. La materia prima della loro prosa è ingrata e inelastica. Ma con fatica, e integrità la più ostinata, pensando ogni pensiero finché questo non si sia arreso alle parole, hanno entrambi forgiato ognuno da sé una prosa che interamente si modella secondo la forma della loro mente; che ha, in aggiunta, una bellezza, una potenza, una velocità tutta sua. Charlotte Brontë almeno non doveva niente alla lettura di molti libri. Non imparò mai la scioltezza dello scrittore professionista, né acquisì l’abilità di rimpinzare e signoreggiare il linguaggio a suo piacere. «Non sono mai riuscita a sostenere la comunicazione con delle menti forti, discrete, raffinate, sia maschili che femminili» scrive, come avrebbe potuto scrivere qualsiasi editorialista in un giornale di provincia; poi acquistando vigore e velocità prosegue con la sua voce più autentica «finché non avessi oltrepassato le fortificazioni del riserbo convenzionale e superato la soglia dell’intimità, e non avessi vinto un posto nel focolare del loro cuore». È qui che lei si trova al suo posto, è la luce rossa e intermittente della fiamma del cuore che illumina la sua pagina. In altre parole, leggiamo Charlotte Brontë non per la squisita osservazione del personaggio – i suoi personaggi sono vigorosi ed elementari; non per la commedia – la sua è truce e rozza; non per una concezione filosofica della vita – la sua è quella della figlia di un parroco di campagna; ma per la sua poesia. È probabile che sia sempre così con quegli scrittori che come lei abbiano una personalità travolgente, i quali, come diciamo nella vita vera, non hanno che da aprire la porta per farsi sentire. C’è in loro una specie di indomita ferocia perpetuamente in lotta con l’ordine accettato delle cose, che fa loro desiderare di creare all’istante piuttosto che osservare pazientemente. Proprio questo ardore, che rifiuta le mezze ombre e altri impedimenti minori, sorvola sul comportamento quotidiano della gente normale e si allea con le loro passioni più inarticolate. Li fa poeti o, se scelgono di scrivere in prosa, li rende intolleranti delle sue restrizioni. Ecco perché sia Emily che Charlotte invocano sempre l’aiuto della natura. Entrambe sentono il bisogno di un simbolo delle vaste e sopite passioni della natura umana più potente di quanto le parole e le azioni possano comunicare. È con la descrizione di una tempesta che Charlotte conclude il suo più bel romanzo, Villette. «I cieli incombono pesanti e scuri – un relitto naviga da occidente, le nuvole mutano in strane forme.» Chiama qui la natura a descrivere uno stato della mente che non poteva venire espresso altrimenti. Ma nessuna delle due sorelle osservò la natura con l’accuratezza di Dorothy Wordsworth, o la dipinse con la minuzia di Tennyson. Colsero quegli aspetti della terra che erano più affini a ciò che sentivano loro o attribuivano ai loro personaggi, e così le loro tempeste, le loro brughiere, i loro incantevoli spazi di clima estivo non sono ornamenti lì a decorare una pagina noiosa o esibire i poteri di osservazione dello scrittore – traducono l’emozione e illuminano il significato del libro.

tratto da «Jane Eyre and Wuthering Heights», The Common Reader: First Series, The Hogarth Press, London 1925

Virginia Woolf
Voltando pagina
Saggi 1904-1941
a cura di Liliana Rampello
Il Saggiatore 2011

venerdì 20 novembre 2015

Essere poeta significa incendiarsi per un verso, per l'albero al bordo della strada

Da bambina lesse di nascosto dai grandi Eugenio Onegin, il poema di Aleksandr Puškin  (Tatiana e Onegin non si amarono mai, pur amandosi sempre: all’inizio lui respinge Tatiana, alla fine Tatiana respinge Onegin): in un saggio su Puškin , nel 1937, Marina Cvetaeva scrisse che quell'amore non riuscito “predeterminò in me tutta la passione per l’amore infelice, non reciproco, impossibile. Da quel preciso istante non ho voluto essere felice e con questo mi sono condannata – al nonamore”.

Il nonamore ha vissuto dentro molti amori, il nonamore cresceva perché l’amore era incompatibile con la vera ossessione della vita: la scrittura. La scrittura ha guidato ogni gesto di Marina Cvetaeva, e la irritavano le parole imprecise, le domande stupide, i pensieri meschini, la vita priva di poesia (“trovate parole che mi incantino: credo soltanto agli incantesimi”). Marina si irritava anche per l’amore eccessivo, cieco, ottuso: in una lettera a un amico, prima della Rivoluzione, racconta la sua formula dell’amore, anche se è forse ancora piena dell’invincibilità della giovinezza. L’amore per lei era prima di tutto comprensione, riconoscimento, condividere una passione: “Voglio leggerezza, libertà, comprensione – non trattenere nessuno e che nessuno mi trattenga” (per questo amò Boris Pasternak, amò Rainer Maria Rilke – “E’ così raro che le mie mani vogliano qualcosa”, “Posso baciarti?”, “Io ti amo e voglio dormire con Te, lo dico con altra voce, quasi nel sonno, già nel sonno” – e amò i poeti e le poetesse e chi si incendiava come lei per un verso, per l’albero al bordo della strada).

Un bellissimo ritratto di Marina Cvetaeva scritto da Annalena Benini
tratto dal blog minimaemoralia

giovedì 19 novembre 2015

sono un vento che annuncia un temporale

Altre notizie

I

Al nord sole e schiarite, temperatura in lieve aumento, 
piogge anche di forte intensità all'interno. Il tempo di spegnere
la radio e fare mente locale su quale sia il mio luogo.
Una domanda a cui rispondo in fretta: sono un vento che
annuncia un temporale, ascoltando una radio notturna che
parla di futuro.
Può bastare per il dubbio di esistere davvero
mentre l'albergo annega dentro un'autostrada
e i prati sono neri come gomme di camion. 

Anto­nella Anedda
Salva con nome
Mon­da­dori 2012

mercoledì 18 novembre 2015

i vetri chiari delle finestre che mi proteggevano, ma non mi separavano dalla triste giornata di novembre

Un romanziere, riflettiamo, per forza deve costruire la sua struttura a partire da dei materiali assai deperibili che all'inizio conferiscono realtà alla struttura, ma alla fine l’appesantiscono di robaccia. Appena riapriamo un’altra volta ancora Jane Eyre, non riusciamo a soffocare il sospetto che troveremo antiquato, vittoriano e obsoleto il mondo della sua immaginazione, esattamente come la canonica nella brughiera, un posto frequentato soltanto dai curiosi, custodito soltanto dai devoti. Apriamo dunque Jane Eyre e basteranno due pagine a scacciare ogni sospetto.
«A destra mi impedivano la vista i panneggi di tende scarlatte, a sinistra c’erano i vetri chiari delle finestre che mi proteggevano, ma non mi separavano dalla triste giornata di novembre. A intervalli, mentre sfogliavo le pagine del libro, mi fermavo a guardare l’aspetto di quel pomeriggio invernale. Lontano, si offriva un pallido vuoto di nuvole e nebbia; vicino, uno scenario di prati umidi e cespugli battuti dalla tempesta, con la pioggia incessante selvaggiamente trasportata da una lunga, lamentevole raffica».

Non c’è niente qui che sia più deperibile della brughiera, o più soggetto alla moda della «lunga, lamentevole raffica». Né di breve durata l’intensità. Prorompe da tutto il volume, senza darci il tempo di pensare, senza farci alzare gli occhi dalla pagina. Tanto intensa è la nostra immersione che se qualcuno si muove nella stanza in cui stiamo il movimento sembra aver luogo non qui, ma nello Yorkshire. La scrittrice ci tiene per mano, ci forza al suo percorso, ci fa vedere ciò che vede lei, non ci lascia neppure per un momento, non ci permette di dimenticarci di lei. Alla fine ci ritroviamo totalmente imbevuti del genio, della veemenza, dell’indignazione di Charlotte Brontë. Nel frattempo facce notevoli, figure dal forte profilo e dal tratto aspro ci sono balenate davanti, ma è con i suoi occhi che le abbiamo viste. Una volta scomparsa lei, le cerchiamo invano. Pensate a Rochester e sarà attraverso Jane Eyre. Pensate alla brughiera ed ecco di nuovo Jane Eyre. Pensate al salotto perfino, ai «tappeti bianchi su cui sembravano poggiare brillanti ghirlande di fiori», al «caminetto in pallido marmo pario» col suo vaso di cristallo di Boemia «rosso rubino» e «alla mescolanza in genere di neve e di fuoco» – che cos'è tutto ciò, se non Jane Eyre?

tratto da «Jane Eyre and Wuthering Heights», The Common Reader: First Series, The Hogarth Press, London 1925

Virginia Woolf
Voltando pagina
Saggi 1904-1941
a cura di Liliana Rampello
Il Saggiatore 2011

martedì 17 novembre 2015

Mai di una parola mi sono compiaciuta

Senzavento

Per il vecchio che ieri spingeva il suo carro di olive oltre i cancelli del parco, per la breve, agghiacciante risata dei bambini che montano furiosi e soli le bestie delle giostre. Forse è questo a togliermi la pace di ogni rima: essere indifferente all'armonioso dispiegarsi del linguaggio, essere ostile. Mai di una parola mi sono compiaciuta. L'ho solo piegata, il poco che potevo, con sconforto, con umiliazione: così rada, così lontana da ogni limpida certezza.



Antonella Anedda
Il catalogo della gioia
Donzelli 2003

lunedì 16 novembre 2015

la disperazione volge in estasi e i duri frutti delle stelle crescono nel cielo

E se Eraclito e Parmenide
avessero ragione contemporaneamente
e due mondi esistessero affiancati
uno tranquillo, l’altro folle; una freccia
scocca immemore, e l’altra indulgente
la osserva; lo stesso flutto si frange e non si frange,
gli animali nascono e muoiono nello stesso istante,
le foglie di betulla giocano con il vento e al contempo
si struggono in una crudele fiamma rugginosa.
La lava uccide e serba, il cuore batte e viene colpito,
c’era la guerra, la guerra non c’era,
gli ebrei sono morti, vivono gli ebrei, le città bruciarono,
le città rimangono, l’amore avvizzisce, il bacio è eterno,
le ali dello sparviero devono essere brune,
tu sei sempre con me, anche se non ci siamo più,
le navi affondano, la sabbia canta e le nuvole
vagano come veli nuziali sfilacciati.

Tutto è perduto. Tanto incanto. I colli
reggono cauti lunghi stendardi boscosi,
il muschio sale sul campanile di pietra della chiesa
e con labbra minute timidamente loda il Settentrione.
Al crepuscolo i gelsomini brillano come lampade
folli stordite dalla propria luce.
Nel museo davanti a una tela scura
si stringono pupille feline. Tutto è finito.
I cavalieri galoppano su cavalli neri, il tiranno scrive
una sgrammaticata condanna a morte.
La giovinezza si dissolve nell'arco
di un giorno, i volti delle fanciulle si fanno
medaglioni, la disperazione volge in estasi
e i duri frutti delle stelle crescono nel cielo
come grappoli d’uva e la bellezza dura, tremula, immota
e Dio c’è e muore, la notte torna a noi

sul fare della sera, e l’alba è brizzolata di rugiada.

Adam Zagajewski
Dalla vita degli oggetti 
a cura di Krystyna Jaworska
Adelphi 2012



domenica 15 novembre 2015

Benvenuta, oscurità. Addio, luce del giorno

La pelle levigata degli oggetti è tesa
come la tenda di un circo.
Sopraggiunge la sera.
Benvenuta, oscurità.
Addio, luce del giorno.
Siamo come palpebre, dicono le cose,
sfioriamo l’occhio e l’aria, l’oscurità
e la luce, l’India e l’Europa.

E all'improvviso sono io a parlare: sapete,
cose, cos'è la sofferenza?
Siete mai state affamate, sole, sperdute?
Avete pianto? E conoscete la paura?
La vergogna? Sapete cosa sono invidia e gelosia,
i peccati veniali non inclusi nel perdono?
Avete mai amato? Vi siete mai sentite morire
quando di notte il vento spalanca le finestre e penetra
nel cuore raggelato? Avete conosciuto la vecchiaia,
il lutto, il trascorrere del tempo?

Cala il silenzio.
Sulla parete danza l’ago del barometro.

Adam Zagajewski
Dalla vita degli oggetti 
a cura di Krystyna Jaworska
Adelphi 2012

sabato 14 novembre 2015

quando si scrive non si può mai essere abbastanza soli, quando si scrive non si può mai avere abbastanza silenzio intorno, la notte è ancora troppo poco notte

Scrivendo ho fatto di nuovo tardi, mia cara, è l'una di notte. Mi ritorna sempre alla mente il dotto cinese. Ma purtroppo, purtroppo, non è l'amica a svegliarmi; soltanto la lettera che le voglio scrivere. Una volta mi hai scritto che vorresti starmi vicino mentre scrivo, pensa però che non potrei scriverti (non posso neanche molte altre cose), ma scrivere non mi sarebbe possibile. Scrivere significa aprirsi fino all'eccesso; l'estrema sincerità e dedizione in cui uno crede già di perdersi ai contatti umani e pertanto, fin che è in sé, cercherà sempre di evitare - poiché ognuno vuol vivere intanto che vive -, questa sincerità e dedizione non è neanche lontanamente sufficiente per scrivere. Ciò che da questa superficie si trasporta nello scrivere - se non si può altrimenti e le fonti più profonde tacciono - non è nulla e crolla nel momento in cui il sentimento più vero fa traballare questo suolo superiore. Perciò quando si scrive non si può mai essere abbastanza soli, quando si scrive non si può mai avere abbastanza silenzio intorno, la notte è ancora troppo poco notte. Perciò non si può mai avere a disposizione abbastanza tempo perché le vie sono lunghe ed è facile deviare, talvolta ci si angoscia perfino e senza essere costretti o invitati vien voglia di tornare indietro di corsa (voglia in seguito sempre severamente punita), quanto più se si ottenesse improvvisamente un bacio dalla bocca più cara! Ho già pensato più volte che il mio miglior tenore di vita sarebbe quello di stare con l'occorrente per scrivere e una lampada nel locale più interno d'una cantina vasta e chiusa. Mi si porterebbe il cibo, lo si poserebbe sempre lontano dal mio locale dietro alla più lontana porta della cantina. La strada per andare a prendere il pasto, in veste da camera, passando sotto le volte della cantina, sarebbe la mia unica passeggiata. Poi ritornerei alla mia scrivania, mangerei lento e misurato e riprenderei subito a scrivere. Chissà quali cose scriverei! 
Da quali profondità le farei sorgere! Senza sforzo, perché l'estrema concentrazione non sa cosa sia lo sforzo. Salvo che forse non lo potrei fare a lungo e al più piccolo fallimento, non evitabile nemmeno in queste condizioni, finirei in una grandiosa pazzia. Che ne dici, cara? Non ritrarti dall'inquilino della cantina!

tra il 14 e il 15.1.1913

Franza Kafka
Lettere a Felice
1912-1917
raccolte e edite da Erich Heller e Jurgen Born
tradotte da Ervino Pocar
I Meridiani Mondadori 1972

venerdì 13 novembre 2015

legno, respiro, ballatoio e quelle felci fulgide, appartate...

Lettera


Ho ripreso una lettera in mano.
Ho letto, ancora. Sin che morì la luce.
(Kostantinos Kavafis)

Dunque ora ricorda corpo
non il corpo che amasti
e che ora dorme in un diverso inverno
ma gli oggetti della stanza di allora.
Ricorda come li attraversavi indifferente
e come li vorresti ora pesanti contro il petto
a premere il rimpianto a farne cosa
da erigere sul dubbio che due corpi
siano stati davvero in una tregua:
legno, respiro, ballatoio
e quelle felci fulgide, appartate...

Antonella Anedda
Il catalogo della gioia
Donzelli 2003

giovedì 12 novembre 2015

L'io lirico, sovrano e signore delle mie parole

(...) quando
 traduco
 un
 altro
 poeta,
 sono
 anche
 obbligato
 a
 dimenticare,
 o
 almeno
 a
 relativizzare,
 quella
 voce
 che
 credevo
 così
 mia,
 a
 farla
 per
 quanto
 possibile
 tacere,
 considerandola
 talvolta
 quasi
 nemica.
 Non
 io,
 il
 mio
 io
 lirico,
 che
 poco
 prima
 consideravo
 signore
 e
 sovrano 
delle 
mie
 parole, 
ma
 l’altro 
deve

parlare,
 quell'altro
 che
 ha
 una
 pronuncia
 e
 uno
 sguardo
 a
 me
 estranei.

Fabio Pusterla 
in Parola plurale
Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli
Luca Sossella editore 2005


mercoledì 11 novembre 2015

in un calvario di oggetti del mattino

Non una luce ultraterrena
ma un bagliore di pentole di rame
un metallo interiore
(a croce mio malgrado)
in un calvario di oggetti del mattino:
la busta di plastica, gli ombrelli
un raggio di bottiglie
più lattee nella brina.
C’è una pena che ignoro
se mi aspetta in un orto di buio, di paura
o più semplicemente nel cortile
vicino al tronco dell’albero di Giuda.


Antonella Anedda
Dal balcone del corpo
Mondadori 2007

martedì 10 novembre 2015

Scrivere poesia è guardare prima il cielo e poi, scrutare la terra

Poesia

Ogni giorno dimentico com'è.
Guardo il fumo salire
a grandi passi sopra la città.
A nessuno appartengo.

Poi mi ricordo delle scarpe,
come calzarle,
come curvarmi per allacciarle
e scrutare la terra. 

Charles Simic
Hotel Insonnia
a cura di Andrea Molesini
Adelphi 2002

Poem
Every morning I forget how it is.
I watch the smoke mount
In great strides above the city.
I belong to no one.

Then, I remember my shoes,
How I have to put them on,
How bending over to tie them up
I will look into the earth. 

lunedì 9 novembre 2015

Le poesie di Ungaretti dissolte nella mia radiosa felicità

Discorso del viaggiatore

Ho percorso l’Italia
da sud a nord
come voleva la strada.
Non ho fatto esperienze.
A Napoli un cane come
non ne vidi mai stava
a guardia del sole nascente;
dietro Ravenna tesi l’orecchio
al sommesso oracolo della pioggia;
in Maremma vidi mosche
negli occhi dei bovini, e me stesso.
Quasi troppo per una vita.
Col tempo appresi
a condurmi fra le vie traverse
che non portano a nord.
A Roma, ne devo far menzione,
osservai formiche rosse
che volevano trascinar via il Pantheon.
Per il resto, camminando lessi
le brevi poesie di Ungaretti
fino a che non si furono dissolte
nella mia radiosa felicità.


Michael Krüger
Il coro del mondo
Poesie 2001-2010
traduzione di Anna Maria Carpi
Mondadori 2010


Durch Italien lief ich,
von Süden nach Norden,
wie es die Straβe befahl.
Ich habe nichts erlebt.
Bei Neapel bewachte ein Hund
die aufgehende Sonne,
wie ich nie einen sah;
hinter Ravenna lauschte ich
dem feinen Orakel des Regens;
in der Maremma sah ich Fliegen
in den Augen der Rinder, und mich.
Fast zuviel für ein Leben.
Mit der Zeit lernte ich,
die Umwege zu beherrschen,
die nicht nach Norden führen.
In Rom, das sei noch erwähnt,
beobachtete ich rote Ameisen,
die das Pantheon abtragen wollten.
Übrigens las ich beim Gehen
Ungarettis kurze Gedichte,
bis sie sich aufgelöst hatten
in meinem strahlenden Glück.

domenica 8 novembre 2015

recupera dal silenzio, parola per parola, il mondo

Con coraggio al riparo
della lingua (davanti alla cui soglia
voci estranee sussurrando ti
cercano con gli occhi) ripetere
le tue parole. Quando la sera
ti genera (quando le altre 
voci tacciono), vai pure
davanti alla tua porta: allora recuperi
dal silenzio, parola per parola, il mondo.

Michael Krüger 
Di notte tra gli alberi
a cura di Luigi Forte
Donzelli 2002

sabato 7 novembre 2015

Appena svegli noi siamo gli uccelli chini sul lavabo stanchi della migrazione notturna

Coraggio

La cucina è un promontorio. Le pentole sono scogli divorati da un vento-lupo che soffia e corre in cerchio nell'isola. La ringhiera della finestra è una raffica grigia, sua compagna nostra sorella aguzza. Appena svegli noi siamo gli uccelli chini sul lavabo stanchi della migrazione notturna, confusi dai razzi che percuotono i sogni.

In tutto il quadro è inverno.
Nella musica della radio rintocca la grandine. 
Il suo bianco vibra sulle antenne e il balcone.
Con il suo muso di nuvola pietosa
l'alba ci spinge alla vita.

Antonella Anedda
Il catalogo della gioia
Donzelli 2003

venerdì 6 novembre 2015

quando si scrive non si può avere mai abbastanza silenzio intorno

Euridice

«Perciò quando si scrive non si può mai essere abbastanza soli, 
quando si scrive non si può avere mai abbastanza silenzio intorno, 
la notte è ancora troppo poco notte».

Franz Kafka, lettera a Felice, 14-15 gennaio 1913.

Tu senti che vado lontano
in zone pericolose.
Potrei non fare ritorno –
restare sbalzata su quel fuoco
con veste incendiata rovinare
o perdermi nei deserti del cielo
sbandare sui ghiacci stesi
spericolarmi nei boschi e nelle radure
minacciose. Si è molto soli là
fra le alture e le fosse, nelle fermentazioni
nel pullulare appena di voci.
Slacciata da ciò che mi è noto
un po’ squilibrata nel vuoto.
Ci debbo ogni tanto tornare –
che qui c’è la parte migliore.
Di quella mi vesto ogni tanto
di rado. Ma tu non girarti a guardare.
Lasciami sola. Non farmi di sale.

Mariangela Gualtieri

da “Le giovani parole”, Einaudi, Torino, 2015

giovedì 5 novembre 2015

ricordo ancora l’istante in cui alzai lo sguardo e vidi un luogo che potevo solo immaginare

Lo specchio

Un salone bianco nel vivo di una festa
e io stavo con amici
sotto un grande specchio dalla cornice dorata
leggermente inclinato in avanti
sopra al caminetto.
Bevevamo whisky
e alcuni tra noi, non provando dolore,
disquisivano
su quale fosse l’esatta sfumatura di giallo
che il sole cadente conferiva ai nostri bicchieri.
Chiusi gli occhi solo per un poco
poi alzai lo sguardo allo specchio:
una donna vestita di verde stava
appoggiata alla parete più lontana.
Pareva assente,
le dita di una mano
giocavano nervose con la collana,
e lei guardava fisso nello specchio
non me, ma oltre di me, uno spazio
che poteva essere colmato da qualcuno
che ancora doveva arrivare, che in quell'istante
forse iniziava il viaggio
che l’avrebbe condotto da lei.
Poi, d’improvviso, gli amici
dissero che era ora di muoversi.
Sono passati anni,
e anche se ho scordato
dove andammo e chi fossimo,
ricordo ancora l’istante in cui alzai lo sguardo
e vidi la donna guardare fisso oltre di me
un luogo che potevo solo immaginare
e ogni volta provo una pena acuta,
come se in quel momento uscissi
dalle profondità dello specchio
ed entrassi nel salone bianco, ansimante e ardente,
soltanto per scoprire troppo tardi
che lei lì non c’è.

Mark Strand
Uomo e cammello
traduzione di Damiano Abeni
Mondadori 2007


***

Mirror

A white room and a party going on
and I was standing with some friends
under a large gilt-framed mirror
that tilted slightly forward
over the fireplace.
We were drinking whiskey
and some of us, feeling no pain,
were trying to decide
what precise shade of yellow
the setting sun turned our drinks.
I closed my eyes briefly,
then looked up into the mirror:
a woman in a green dress leaned
against the far wall.
She seemed distracted,
the fingers of one hand
fidgeted with her necklace,
and she was staring into the mirror,
not at me, but past me, into a space
that might be filled by someone
yet to arrive, who at that moment
could be starting the journey
which would lead eventually to her.
Then, suddenly, my friends
said it was time to move on.
This was years ago,
and though I have forgotten
where we went and who we all were,
I still recall that moment of looking up
and seeing the woman stare past me
into a place I could only imagine,
and each time it is with a pang,
as if just then I were stepping
from the depths of the mirror
into that white room, breathless and eager,
only to discover too late
that she is not there.

Mark Strand

da “Man and Camel”, Alfred A. Knopf,  2006

mercoledì 4 novembre 2015

Siamo come palpebre, dicono le cose, sfioriamo l'occhio e l'aria, l'oscurità e la luce

La pelle levigata degli oggetti è tesa
come la tenda di un circo.
Sopraggiunge la sera.
Benvenuta, oscurità.
Addio, luce del giorno.
Siamo come palpebre, dicono le cose,
sfioriamo l'occhio e l'aria, l'oscurità
e la luce, l'India e l'Europa.

E all'improvviso sono io a parlare: sapete,
cose, cos'è la sofferenza?
Siete mai state affamate, sole, sperdute?
Avete pianto? E conoscete la paura?
La vergogna? Sapete cosa sono invidia e gelosia,
i peccati veniali non inclusi nel perdono?
Avete mai amato? Vi siete mai sentite morire
quando di notte il vento spalanca le finestre e penetra
nel cuore raggelato? Avete conosciuto la vecchiaia,
il lutto, il trascorrere del tempo?

Cala il silenzio.
Sulla parete danza l'ago del barometro.

Adam Zagajewski
Dalla vita degli oggetti 
a cura di Krystyna Jaworska
Adelphi 2012

martedì 3 novembre 2015

nel fulgore e nelle tenebre, nel fragore delle cascate e nel silenzio del sonno

Egli agisce, nel fulgore e nelle tenebre,
nel fragore delle cascate e nel silenzio del sonno,
ma non come annunciano i vostri
pastori, che restano ben protetti.
Cerca la linea più distante,
una strada così lontana che quasi
non si vede. Si perde
nel dolore. Solo i ciechi, solo
i gufi talora ne percepiscono la tenue impronta

sotto le palpebre. 

Adam Zagajewski
Dalla vita degli oggetti 
a cura di Krystyna Jaworska
Adelphi 2012

lunedì 2 novembre 2015

La scrittura e il tempo presente: invisibili tra gli alberi, le onde, i venti e i suoni

Commentando La signora Dalloway, la Woolf disse che "il tempo non esiste": frase che rivela come perfino gli scrittori più intelligenti e coscienti di sé ignorino la natura dei propri libri. In realtà La signora Dalloway restituisce nel modo più grandioso e sottile il tempo, ora dopo ora, minuto dopo minuto, secondo dopo secondo, scandito dai pesanti rintocchi dell' orologio. Forse nessuno scrittore ha mai reso così felicemente l'incessante fluidità del tempo: un tempo tutto presente, perché anche il passato è riportato al livello del presente. Non è fatto di eventi, ma di istanti - il fremito, lo slancio dei puledri al galoppo, un giornale che vola in aria, una veletta per signora che fluttua, tende gialle che palpitano, un biroccino che sferraglia per le strade quasi deserte: minuti impalpabili, che nessuno strumento di precisione può registrare, e che pulsano e vibrano e battono come un cuore. Se ascoltiamo più attentamente, ci accorgiamo che questa vibrazione incessante è composta egualmente d'aria e d'acqua. Tutta la sostanza di Londra è ariosa e liquida, liquida e ariosa; e gli uomini sono sparsi dovunque in questa atmosfera, invisibili tra gli alberi, le onde, i venti e i suoni. 

Pietro Citati
I fantasmi di Virginia Woolf
Repubblica 20 gennaio 1999